L’A., dopo aver cercato di dimostrare che, contrariamente a quanto ritenuto da una parte della dottrina, il criterio della “completezza” delle richieste di referendum abrogativo riveste una permanente vitalità all’interno della giurisprudenza costituzionale, espone alcuni argomenti di vario genere e spessore che dovrebbero indurre, viceversa, la Consulta ad abbandonare il ricorso al canone in parola. Tramite il suo utilizzo, infatti, la Corte realizza, in ultima analisi, una duplice, criticabile “torsione”. Da un lato, infatti, il giudice costituzionale, in casi del genere, pare procedere da una concezione del referendum abrogativo quale strumento che dovrebbe risolvere da solo il problema normativo conseguente a un eventuale esito positivo della consultazione popolare, non tenendo, tuttavia, nella dovuta considerazione i limiti strutturali dell’istituto. Dall’altro, il ruolo svolto, dalla Consulta, in ipotesi siffatte, sembra «trascorrere ... dalla garanzia costituzionale alla pedagogia democratica», nella misura in cui il suo intervento non pare più preordinato alla «tutela di princìpi costituzionali intangibili», quanto piuttosto ad una sorta di «paternalismo costituzionale» in nome del quale, in definitiva, s’intende «preservare il popolo dalle cattive conseguenze dei suoi atti»: funzione, questa, che va affidata, tuttavia, alla politica, pur con l’ovvio limite del rispetto del dettato costituzionale, e non può essere, invece, svolta, dalla Corte, in sede di giudizio di ammissibilità.
Ammissibilità e «completezza» delle richieste di consultazione popolare (ovvero: la Corte e la «pedagogia democratica»), / Pinardi, Roberto. - STAMPA. - II:(2013), pp. 1103-1115.
Ammissibilità e «completezza» delle richieste di consultazione popolare (ovvero: la Corte e la «pedagogia democratica»),
PINARDI, Roberto
2013
Abstract
L’A., dopo aver cercato di dimostrare che, contrariamente a quanto ritenuto da una parte della dottrina, il criterio della “completezza” delle richieste di referendum abrogativo riveste una permanente vitalità all’interno della giurisprudenza costituzionale, espone alcuni argomenti di vario genere e spessore che dovrebbero indurre, viceversa, la Consulta ad abbandonare il ricorso al canone in parola. Tramite il suo utilizzo, infatti, la Corte realizza, in ultima analisi, una duplice, criticabile “torsione”. Da un lato, infatti, il giudice costituzionale, in casi del genere, pare procedere da una concezione del referendum abrogativo quale strumento che dovrebbe risolvere da solo il problema normativo conseguente a un eventuale esito positivo della consultazione popolare, non tenendo, tuttavia, nella dovuta considerazione i limiti strutturali dell’istituto. Dall’altro, il ruolo svolto, dalla Consulta, in ipotesi siffatte, sembra «trascorrere ... dalla garanzia costituzionale alla pedagogia democratica», nella misura in cui il suo intervento non pare più preordinato alla «tutela di princìpi costituzionali intangibili», quanto piuttosto ad una sorta di «paternalismo costituzionale» in nome del quale, in definitiva, s’intende «preservare il popolo dalle cattive conseguenze dei suoi atti»: funzione, questa, che va affidata, tuttavia, alla politica, pur con l’ovvio limite del rispetto del dettato costituzionale, e non può essere, invece, svolta, dalla Corte, in sede di giudizio di ammissibilità.File | Dimensione | Formato | |
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