Già da anni vi è un nuovo modo di intendere il lavoro; si è fatto strada tra i teorici dell’organizzazione del lavoro il concetto di èquipe multidisciplinare e multiprofessionale, per cui si è portati a pensare che diverse culture professionali, formazioni scientifiche ed esperienze maturate nei vari ambiti di competenza, che compongono appunto un’èquipe tipo, possano dare una risposta ad un determinato problema o individuare la miglior soluzione per risolvere una ipotetica criticità, meglio di un singolo professionista. Ebbene anche in ambito sanitario questo modo di concepire lo svolgimento del lavoro ha fatto fortuna e si sta affermando sempre di più; anzi in determinate branche della terapia e dell’assistenza a particolari tipologie di pazienti, quali “gli oncologici”, “gli psichiatrici”, “i geriatrici” ed altri, lavorare in èquipe è diventato indispensabile per tutta una serie di ragioni, e foriero di maggiori successi terapeutici. Per quanto riguarda la psichiatria durante il corso del ‘900 abbiamo assistito al passaggio da un modello di intervento custodialistico e contenitivo ad un modello socioriabilitativo di cura, in cui il paziente non deve più essere allontanato ed isolato dal proprio ambiente naturale, nascosto alla collettività dei cosiddetti normali, ed eventualmente recluso in contesti ospedalieri o similari, ma restituito piuttosto alla società civile e al territorio il più presto possibile. Le istituzioni manicomiali appartengono ormai al passato, anche se sono forti le tentazioni negli ultimi tempi di farle rivivere in chiave “moderna”. In un orientamento di rete comunitaria l’assistenza psichiatrica, tende quindi a mantenere il paziente nel proprio ambiente naturale mediante un intervento residenziale; il soggetto ha così la possibilità di essere accolto in una struttura aperta, non custodiale, collegata al territorio e capace di offrire un senso di sicurezza, stimolazione al cambiamento e alla crescita, fino a determinare in questo modo l’avvio di un percorso di ricostruzione personale che poi dovrebbe costituire il vero obiettivo di ogni intervento in situazioni di disagio psichico. Le comunità terapeutiche e socioriabilitative sono l’antitesi della istituzionalizzazione e tra gli obiettivi che la moderna psichiatria persegue con convinzione attualmente vi è la promozione continua dei trattamenti terapeutici di comunità e di rete. Si tratta ancora di una scommessa tutt’altro che vinta in partenza perché, come già detto, forme di revisionismo storico e scientifico minacciano il raggiungimento di questo obiettivo, che psichiatri sociali come Basaglia hanno perseguito per tutta una vita. Secondo il punto di vista della psichiatria di comunità, ogni persona con difficoltà psicologiche, sociorelazionali e di sofferenza psichiatrica ha la necessità di rapportarsi ad un piccolo gruppo di persone/operatori, che comunicano fra di loro e che svolgono funzioni cura e sostegno, con attività esercitate in modo differenziato e al tempo stesso integrato. Il gruppo di lavoro di cui parliamo è l’èquipe intesa come una modalità complessa e interdisciplinare in grado di fornire assistenza e varie forme di aiuto alle persone in difficoltà a cui il paziente si rivolge a seconda delle competenze e dei ruoli differenziati ricoperti in seno alla stessa dai vari membri che la compongono. Ogni èquipe di lavoro si definisce in base alle caratteristiche presentate dai suoi componenti e dagli obiettivi che essa si propone di raggiungere, in ogni caso è consigliabile, che la dimensione della stessa debba essere limitata, per consentire una circolazione ottimale della comunicazione, e il realizzarsi di rapporti equilibrati tra i vari membri. Viceversa se vi è un solo membro che assume una posizione predominante, ostacola la comunicazione circolare e determina una gerarchia, con tutte le conseguenze negative immaginabili. Qualsiasi èquipe che vuole raggiungere degli obiettivi terapeutici deve essere organizzata e coordinata. L’intervento sul disagio psichico si può attuare in quattro fasi, come previsto dal processo di assistenza infermieristica:1) analisi dei problemi e dei bisogni, ovvero ascoltando la richiesta di aiuto, raccogliendo i dati necessari;2) pianificazione, definendo la soluzione più appropriata, più realistica, meglio raggiungibile e determinando i criteri per valutarne l’efficacia;3) operatività, consta della realizzazione della soluzione scelta;4) valutazione dei risultati, sotto il profilo dell’efficienza, tesa a verificare se il programma terapeutico sia stato realizzato con il minimo costo possibile e sotto il profilo dell’efficacia consistente nel verificare se sono stati raggiunti gli obiettivi comportamentali e della riabilitazione psicosociale;LE CARATTERISTICHE DELL’EQUIPE E IL LAVORO INTEGRATO Affinché un’èquipe venga riconosciuta come tale e soprattutto sia terapeutica, occorre che abbia determinate caratteristiche:- competenza nel fornire aiuto;- capacità di ascolto, di accoglienza e di riconoscimento dei bisogni dell’utente;- capacità di stabilire dei rapporti empatici;- armonizzazione delle azioni tra i membri dell’èquipe;- non intrusività;- stabilità tra i suoi membri (ridurre al minimo il continuo ricambio degli operatori);- coerenza delle risposte fornite dai vari membri all’utente. Le suddette caratteristiche sono proprie dell’èquipe nel suo insieme, ma sono rese possibili dai differenti ruoli e dalle diverse competenze esercitate dai membri della stessa .L’èquipe è dunque il luogo dove il paziente, attraverso interventi professionali integrati, ha la possibilità di ricevere il necessario sostegno emotivo per sviluppare le proprie capacità di autorganizzazione e nuove strategie per la gestione del disagio personale. R. Blyther paragonava l’èquipe multidisciplinare ad “un’orchestra costituita da sensibilità professionali, aventi specifiche funzioni e competenze, che attraverso l’armonizzarsi delle differenti capacità raggiunge la melodia dell’aiuto”. Solamente l’èquipe può garantirci per definizione una presa in carico globale, questo perché le diverse professionalità della stessa permettono di inquadrare “il problema” da differenti prospettive e tutte concorrono alla risoluzione dello stesso. Ovviamente le composizioni delle èquipe variano a seconda del servizio in cui operano e della tipologia predominante dei pazienti assistiti. Mentre in un Dipartimento di Salute Mentale troveremo lo psichiatra, lo psicologo, l’infermiere e l’assistente sociale, in un contesto socioassistenziale ci saranno oltre allo psicologo e all’assistente sociale anche un tecnico della riabilitazione psicosociale e psichiatrica e un animatore. Ma in questa lista di operatori coinvolgibili trovano spazio e giustificazione anche l’impiego di figure professionali e non, quali: il sociologo, il pedagogista, il mediatore culturale, il logopedista, l’O.S.S.(Operatore Socio-sanitaro), cosi come i volontari ospedalieri, il personale del Servizio Civile, gli studenti di medicina, di infermieristica, di psicologia, gli specializzanti in psichiatria, in psicologia, in infermieristica psichiatrica. A tutt’oggi sono state individuate cinque tipologie di Comunità Terapeutiche in Italia:- Sanitaria (prevalentemente composta da psichiatri e infermieri): 40%;- Psicoeducativa (solitamente caratterizzata dalla presenza di tecnici della riabilitazione: 20%;- Psicologica ( significativa presenza di psicologi): 10%;- Multiprofessionale ( dove vi è un’equa distribuzione di tutte le figure): 25%;- Generica ( dove vi è in maggioranza la presenza di figure non professionali: 5%. Certamente gli equilibri interni di una èquipe si possono incrinare per un qualsiasi motivo, così come possono affiorare le gerarchie, i legami e le alleanze che vanno al di là della professionalità dei singoli, ed è in questo momento di criticità che la discussione franca, diretta e priva di filtri, se non quello del rispetto che deve esserci alla base di ogni rapporto professionale ed umano, possono contribuire a trovare un punto di vista unitario, frutto di una mediazione, per poter così mettere in campo un’azione specifica ed integrata che sia il risultato di una comune progettualità, sintesi delle varie specificità professionali. E’ evidente che l’integrazione di diverse professionalità può essere difficile, faticosa e sfibrante, ma ci si può render conto del vantaggio di non farsi carico da soli di casi clinici particolarmente impegnativi, complessi e articolati, e che sia invece auspicabile che l’èquipe nel suo insieme condivida la responsabilità professionale, per una cura di miglior successo. Va da sé che abbandonare le “rigidità” così come le “sicurezze” derivanti dalle varie specificità professionali e scientifiche costa fatica, ma convertirsi ad una maggiore flessibilità diventa necessario ed indispensabile se si vuole operare in un lavoro comune, sfruttando le potenzialità terapeutiche del gruppo. Inoltre sembra importante nel rispetto delle reciproche professionalità che sia evitata il più possibile la gerarchizzazione professionale, favorendo invece la logica del gruppo integrato dove l’obiettivo terapeutico è raggiunto attraverso l’utilizzo delle funzioni proprie di ogni professione in termini di strategie e progettualità. Nel momento in cui la compattezza del gruppo terapeutico viene meno il paziente persona quasi dotata di un sesto senso, fiutando i contrasti all’interno dell’èquipe e il cattivo clima che si è venuto a formare, può trarne un “vantaggio”(non utile alla cura) modificando repentinamente il rapporto avuto con il gruppo fino a quel momento. Per dei pazienti gravi, con interiorità frammentate e scisse, è molto importante potersi confrontare con vari operatori dalle diverse professionalità, perché questi pazienti si relazionano in modo diverso con ogni membro dell’èquipe. Pertanto nella discussione del gruppo terapeutico ogni aspetto colto nella relazione con il paziente fornirà un quadro più completo del funzionamento psichico del paziente e delle sue necessità, così da poter predisporre progetti terapeutici più mirati. Peraltro è facilmente intuibile come interventi non completamente armonici non favoriscono il paziente a ricomporre la propria realtà frammentata e scissa. Vi è inoltre da aggiungere che le possibili ansie e preoccupazioni di un operatore che non riescono ad essere contenute da un gruppo di lavoro diviso tra mille conflitti, rischiano di riverberarsi negativamente sul paziente, inficiando così in questo modo il risultato terapeutico. L’èquipe non può essere il risultato della semplice somma di persone o di professionisti che si ritrovano ad operare assieme senza conoscersi, senza rispettarsi reciprocamente, umanamente e professionalmente. Sarebbe auspicabile che ogni nuovo operatore che entra nel gruppo di lavoro riceva un accoglimento di integrazione, che valorizzi lo scambio paritario di conoscenze cliniche e metodologiche, oltre ad una mutua formazione. Al contrario i risultati attesi da un’èquipe che non condivida i valori suddetti rischierebbe di raggiungere risultati di basso profilo sia sotto il punto di vista dell’efficacia della cura, sia dell’efficienza della gestione del servizio. Certamente un’èquipe ideale non sempre la si trova nell’ambito dei Dipartimenti di Salute Mentale, ma ciò non può esimerci dallo sforzo di costituirla, in quanto essa rappresenta una garanzia sia per gli operatori che ne faranno parte, sia per gli pazienti, essendo uno strumento di lavoro verso livelli di assistenza e cura qualitativamente più elevati. Lavorare in psichiatria richiede, dopo la fase di deistituzionalizzazione e la costituzione di servizi di comunità, un maggiore investimento di lavoro nella relazione con il paziente. Tale orientamento ha progressivamente esposto gli operatori sanitari ad un rapporto più stretto con i malati e a un coinvolgimento più intenso con gli aspetti emozionali della sofferenza mentale, ma anche di conseguenza a un rischio più elevato di quella particolare forma di stress lavorativo definita burn-out. Il burn-out, termine di derivazione anglosassone, descrive uno stato di malessere a cui è particolarmente esposto ogni professionista che lavora nel campo delle cosiddette “professioni d’aiuto”, come quelle sanitarie. Stabilire l’eziopatogenesi di questa forma di malessere può risultare arduo, esso appare comunque un fenomeno complesso con cause diverse che lo determinano. Il suddetto fenomeno si manifesta con sintomi psicofisici di varia natura e diventa evidente e “conclamato” solo nell’ultima parte di un processo reattivo di adattamento a condizioni di lavoro divenute cronicamente logoranti e non suscettibili di cambiamento. Il personale di determinate branche della medicina è più esposto al rischio di stress lavorativo. Ad esempio è stato accertato che per chi non ha buoni rapporti con i colleghi di lavoro o si trova in un ambiente ostile dove la gerarchizzazione dei rapporti professionali è particolarmente marcata, il rischio aumenta in modo esponenziale, così come i conflitti di potere, di competenze professionali o la pressione derivante dall’esterno del servizio possono favorire o aggravare la crisi dell’operatore con conseguenti rischi di demotivazione, distacco dal lavoro, senso di inutilità e impotenza, frustrazione e rabbia. La gamma dei sentimenti negativi provati da un operatore in burn-out possono essere diversi, mentre la pericolosità di questo stato di malessere, per il singolo e per l’intera èquipe, può essere particolarmente invalidante, tanto da chiedersi se un allontanamento temporaneo dell’operatore non possa giovare sia al singolo, sia all’èquipe stessa. In un secondo tempo può essere utile lavorare, con l’aiuto di un supervisore esterno qualificato, sulle possibili cause del malessere che ha “bruciato” tutte le energie personali e professionali di quell’operatore. Certamente verrebbe da dire che la presenza periodica di supervisori esterni all’èquipe dovrebbe diventare un’abitudine istituzionale in ogni ambito sanitario, anche se questo comporta un impegno economico per le aziende. Non sempre infatti queste ultime si rendono conto dell’importanza e dell’utilità di queste particolari forme di intervento, forse per l’eccessiva mentalità economico-aziendalista dei dirigenti, i quali devono inevitabilmente chiudere almeno in pareggio il bilancio aziendale, a fine anno.CONCLUSIONI Molti sono gli “ingredienti” necessari per costituire e far funzionare un’èquipe, anche se talvolta non di facile realizzazione per la mancanza di risorse umane, economiche e logistiche. In ogni caso non ci si può arrendere a questa evidenza, perché il percorso intrapreso dalla psichiatria moderna è quello della riabilitazione psicosociale e residenziale. Questa forma di riabilitazione mette in discussione ognuno di noi invitandoci a tentare un percorso di inclusione e di accettazione del paziente psichiatrico. Lo strumento dell’èquipe quindi diventa necessario, nell’operare quotidiano in psichiatria, perché la responsabilità terapeutica non gravi solo su un singolo operatore, ma venga distribuita tra i vari componenti del gruppo di lavoro per evitare tutto quello che di negativo abbiamo già brevemente in precedenza descritto. L’èquipe multidisciplinare costituisce una risposta complessa ad una realtà complessa come il disturbo mentale, correlato a variabili genetiche, biologiche, psicologiche, relazionali e sociali. Tutti gli operatori non possono più trincerarsi dietro confini professionali rigidi ma sono chiamati piuttosto a forme concrete di collaborazione che richiedono doti di flessibilità e di generatività. E’ meglio avere una èquipe in crisi e conflittuale, che stenta ad armonizzarsi ed ottiene risultati deludenti, piuttosto che rinunciare a questo strumento operativo per sostituirlo con l’illusione dell’autosufficienza individuale e professionale. Perché questa scelta potrebbe essere infruttuosa e soprattutto non terapeutica.

Il gruppo di lavoro tra idealità e necessità / Ferri, Paola; A., Giannone; R., Paguni. - In: IO INFERMIERE. - STAMPA. - 1:(2005), pp. 16-22.

Il gruppo di lavoro tra idealità e necessità

FERRI, Paola;
2005

Abstract

Già da anni vi è un nuovo modo di intendere il lavoro; si è fatto strada tra i teorici dell’organizzazione del lavoro il concetto di èquipe multidisciplinare e multiprofessionale, per cui si è portati a pensare che diverse culture professionali, formazioni scientifiche ed esperienze maturate nei vari ambiti di competenza, che compongono appunto un’èquipe tipo, possano dare una risposta ad un determinato problema o individuare la miglior soluzione per risolvere una ipotetica criticità, meglio di un singolo professionista. Ebbene anche in ambito sanitario questo modo di concepire lo svolgimento del lavoro ha fatto fortuna e si sta affermando sempre di più; anzi in determinate branche della terapia e dell’assistenza a particolari tipologie di pazienti, quali “gli oncologici”, “gli psichiatrici”, “i geriatrici” ed altri, lavorare in èquipe è diventato indispensabile per tutta una serie di ragioni, e foriero di maggiori successi terapeutici. Per quanto riguarda la psichiatria durante il corso del ‘900 abbiamo assistito al passaggio da un modello di intervento custodialistico e contenitivo ad un modello socioriabilitativo di cura, in cui il paziente non deve più essere allontanato ed isolato dal proprio ambiente naturale, nascosto alla collettività dei cosiddetti normali, ed eventualmente recluso in contesti ospedalieri o similari, ma restituito piuttosto alla società civile e al territorio il più presto possibile. Le istituzioni manicomiali appartengono ormai al passato, anche se sono forti le tentazioni negli ultimi tempi di farle rivivere in chiave “moderna”. In un orientamento di rete comunitaria l’assistenza psichiatrica, tende quindi a mantenere il paziente nel proprio ambiente naturale mediante un intervento residenziale; il soggetto ha così la possibilità di essere accolto in una struttura aperta, non custodiale, collegata al territorio e capace di offrire un senso di sicurezza, stimolazione al cambiamento e alla crescita, fino a determinare in questo modo l’avvio di un percorso di ricostruzione personale che poi dovrebbe costituire il vero obiettivo di ogni intervento in situazioni di disagio psichico. Le comunità terapeutiche e socioriabilitative sono l’antitesi della istituzionalizzazione e tra gli obiettivi che la moderna psichiatria persegue con convinzione attualmente vi è la promozione continua dei trattamenti terapeutici di comunità e di rete. Si tratta ancora di una scommessa tutt’altro che vinta in partenza perché, come già detto, forme di revisionismo storico e scientifico minacciano il raggiungimento di questo obiettivo, che psichiatri sociali come Basaglia hanno perseguito per tutta una vita. Secondo il punto di vista della psichiatria di comunità, ogni persona con difficoltà psicologiche, sociorelazionali e di sofferenza psichiatrica ha la necessità di rapportarsi ad un piccolo gruppo di persone/operatori, che comunicano fra di loro e che svolgono funzioni cura e sostegno, con attività esercitate in modo differenziato e al tempo stesso integrato. Il gruppo di lavoro di cui parliamo è l’èquipe intesa come una modalità complessa e interdisciplinare in grado di fornire assistenza e varie forme di aiuto alle persone in difficoltà a cui il paziente si rivolge a seconda delle competenze e dei ruoli differenziati ricoperti in seno alla stessa dai vari membri che la compongono. Ogni èquipe di lavoro si definisce in base alle caratteristiche presentate dai suoi componenti e dagli obiettivi che essa si propone di raggiungere, in ogni caso è consigliabile, che la dimensione della stessa debba essere limitata, per consentire una circolazione ottimale della comunicazione, e il realizzarsi di rapporti equilibrati tra i vari membri. Viceversa se vi è un solo membro che assume una posizione predominante, ostacola la comunicazione circolare e determina una gerarchia, con tutte le conseguenze negative immaginabili. Qualsiasi èquipe che vuole raggiungere degli obiettivi terapeutici deve essere organizzata e coordinata. L’intervento sul disagio psichico si può attuare in quattro fasi, come previsto dal processo di assistenza infermieristica:1) analisi dei problemi e dei bisogni, ovvero ascoltando la richiesta di aiuto, raccogliendo i dati necessari;2) pianificazione, definendo la soluzione più appropriata, più realistica, meglio raggiungibile e determinando i criteri per valutarne l’efficacia;3) operatività, consta della realizzazione della soluzione scelta;4) valutazione dei risultati, sotto il profilo dell’efficienza, tesa a verificare se il programma terapeutico sia stato realizzato con il minimo costo possibile e sotto il profilo dell’efficacia consistente nel verificare se sono stati raggiunti gli obiettivi comportamentali e della riabilitazione psicosociale;LE CARATTERISTICHE DELL’EQUIPE E IL LAVORO INTEGRATO Affinché un’èquipe venga riconosciuta come tale e soprattutto sia terapeutica, occorre che abbia determinate caratteristiche:- competenza nel fornire aiuto;- capacità di ascolto, di accoglienza e di riconoscimento dei bisogni dell’utente;- capacità di stabilire dei rapporti empatici;- armonizzazione delle azioni tra i membri dell’èquipe;- non intrusività;- stabilità tra i suoi membri (ridurre al minimo il continuo ricambio degli operatori);- coerenza delle risposte fornite dai vari membri all’utente. Le suddette caratteristiche sono proprie dell’èquipe nel suo insieme, ma sono rese possibili dai differenti ruoli e dalle diverse competenze esercitate dai membri della stessa .L’èquipe è dunque il luogo dove il paziente, attraverso interventi professionali integrati, ha la possibilità di ricevere il necessario sostegno emotivo per sviluppare le proprie capacità di autorganizzazione e nuove strategie per la gestione del disagio personale. R. Blyther paragonava l’èquipe multidisciplinare ad “un’orchestra costituita da sensibilità professionali, aventi specifiche funzioni e competenze, che attraverso l’armonizzarsi delle differenti capacità raggiunge la melodia dell’aiuto”. Solamente l’èquipe può garantirci per definizione una presa in carico globale, questo perché le diverse professionalità della stessa permettono di inquadrare “il problema” da differenti prospettive e tutte concorrono alla risoluzione dello stesso. Ovviamente le composizioni delle èquipe variano a seconda del servizio in cui operano e della tipologia predominante dei pazienti assistiti. Mentre in un Dipartimento di Salute Mentale troveremo lo psichiatra, lo psicologo, l’infermiere e l’assistente sociale, in un contesto socioassistenziale ci saranno oltre allo psicologo e all’assistente sociale anche un tecnico della riabilitazione psicosociale e psichiatrica e un animatore. Ma in questa lista di operatori coinvolgibili trovano spazio e giustificazione anche l’impiego di figure professionali e non, quali: il sociologo, il pedagogista, il mediatore culturale, il logopedista, l’O.S.S.(Operatore Socio-sanitaro), cosi come i volontari ospedalieri, il personale del Servizio Civile, gli studenti di medicina, di infermieristica, di psicologia, gli specializzanti in psichiatria, in psicologia, in infermieristica psichiatrica. A tutt’oggi sono state individuate cinque tipologie di Comunità Terapeutiche in Italia:- Sanitaria (prevalentemente composta da psichiatri e infermieri): 40%;- Psicoeducativa (solitamente caratterizzata dalla presenza di tecnici della riabilitazione: 20%;- Psicologica ( significativa presenza di psicologi): 10%;- Multiprofessionale ( dove vi è un’equa distribuzione di tutte le figure): 25%;- Generica ( dove vi è in maggioranza la presenza di figure non professionali: 5%. Certamente gli equilibri interni di una èquipe si possono incrinare per un qualsiasi motivo, così come possono affiorare le gerarchie, i legami e le alleanze che vanno al di là della professionalità dei singoli, ed è in questo momento di criticità che la discussione franca, diretta e priva di filtri, se non quello del rispetto che deve esserci alla base di ogni rapporto professionale ed umano, possono contribuire a trovare un punto di vista unitario, frutto di una mediazione, per poter così mettere in campo un’azione specifica ed integrata che sia il risultato di una comune progettualità, sintesi delle varie specificità professionali. E’ evidente che l’integrazione di diverse professionalità può essere difficile, faticosa e sfibrante, ma ci si può render conto del vantaggio di non farsi carico da soli di casi clinici particolarmente impegnativi, complessi e articolati, e che sia invece auspicabile che l’èquipe nel suo insieme condivida la responsabilità professionale, per una cura di miglior successo. Va da sé che abbandonare le “rigidità” così come le “sicurezze” derivanti dalle varie specificità professionali e scientifiche costa fatica, ma convertirsi ad una maggiore flessibilità diventa necessario ed indispensabile se si vuole operare in un lavoro comune, sfruttando le potenzialità terapeutiche del gruppo. Inoltre sembra importante nel rispetto delle reciproche professionalità che sia evitata il più possibile la gerarchizzazione professionale, favorendo invece la logica del gruppo integrato dove l’obiettivo terapeutico è raggiunto attraverso l’utilizzo delle funzioni proprie di ogni professione in termini di strategie e progettualità. Nel momento in cui la compattezza del gruppo terapeutico viene meno il paziente persona quasi dotata di un sesto senso, fiutando i contrasti all’interno dell’èquipe e il cattivo clima che si è venuto a formare, può trarne un “vantaggio”(non utile alla cura) modificando repentinamente il rapporto avuto con il gruppo fino a quel momento. Per dei pazienti gravi, con interiorità frammentate e scisse, è molto importante potersi confrontare con vari operatori dalle diverse professionalità, perché questi pazienti si relazionano in modo diverso con ogni membro dell’èquipe. Pertanto nella discussione del gruppo terapeutico ogni aspetto colto nella relazione con il paziente fornirà un quadro più completo del funzionamento psichico del paziente e delle sue necessità, così da poter predisporre progetti terapeutici più mirati. Peraltro è facilmente intuibile come interventi non completamente armonici non favoriscono il paziente a ricomporre la propria realtà frammentata e scissa. Vi è inoltre da aggiungere che le possibili ansie e preoccupazioni di un operatore che non riescono ad essere contenute da un gruppo di lavoro diviso tra mille conflitti, rischiano di riverberarsi negativamente sul paziente, inficiando così in questo modo il risultato terapeutico. L’èquipe non può essere il risultato della semplice somma di persone o di professionisti che si ritrovano ad operare assieme senza conoscersi, senza rispettarsi reciprocamente, umanamente e professionalmente. Sarebbe auspicabile che ogni nuovo operatore che entra nel gruppo di lavoro riceva un accoglimento di integrazione, che valorizzi lo scambio paritario di conoscenze cliniche e metodologiche, oltre ad una mutua formazione. Al contrario i risultati attesi da un’èquipe che non condivida i valori suddetti rischierebbe di raggiungere risultati di basso profilo sia sotto il punto di vista dell’efficacia della cura, sia dell’efficienza della gestione del servizio. Certamente un’èquipe ideale non sempre la si trova nell’ambito dei Dipartimenti di Salute Mentale, ma ciò non può esimerci dallo sforzo di costituirla, in quanto essa rappresenta una garanzia sia per gli operatori che ne faranno parte, sia per gli pazienti, essendo uno strumento di lavoro verso livelli di assistenza e cura qualitativamente più elevati. Lavorare in psichiatria richiede, dopo la fase di deistituzionalizzazione e la costituzione di servizi di comunità, un maggiore investimento di lavoro nella relazione con il paziente. Tale orientamento ha progressivamente esposto gli operatori sanitari ad un rapporto più stretto con i malati e a un coinvolgimento più intenso con gli aspetti emozionali della sofferenza mentale, ma anche di conseguenza a un rischio più elevato di quella particolare forma di stress lavorativo definita burn-out. Il burn-out, termine di derivazione anglosassone, descrive uno stato di malessere a cui è particolarmente esposto ogni professionista che lavora nel campo delle cosiddette “professioni d’aiuto”, come quelle sanitarie. Stabilire l’eziopatogenesi di questa forma di malessere può risultare arduo, esso appare comunque un fenomeno complesso con cause diverse che lo determinano. Il suddetto fenomeno si manifesta con sintomi psicofisici di varia natura e diventa evidente e “conclamato” solo nell’ultima parte di un processo reattivo di adattamento a condizioni di lavoro divenute cronicamente logoranti e non suscettibili di cambiamento. Il personale di determinate branche della medicina è più esposto al rischio di stress lavorativo. Ad esempio è stato accertato che per chi non ha buoni rapporti con i colleghi di lavoro o si trova in un ambiente ostile dove la gerarchizzazione dei rapporti professionali è particolarmente marcata, il rischio aumenta in modo esponenziale, così come i conflitti di potere, di competenze professionali o la pressione derivante dall’esterno del servizio possono favorire o aggravare la crisi dell’operatore con conseguenti rischi di demotivazione, distacco dal lavoro, senso di inutilità e impotenza, frustrazione e rabbia. La gamma dei sentimenti negativi provati da un operatore in burn-out possono essere diversi, mentre la pericolosità di questo stato di malessere, per il singolo e per l’intera èquipe, può essere particolarmente invalidante, tanto da chiedersi se un allontanamento temporaneo dell’operatore non possa giovare sia al singolo, sia all’èquipe stessa. In un secondo tempo può essere utile lavorare, con l’aiuto di un supervisore esterno qualificato, sulle possibili cause del malessere che ha “bruciato” tutte le energie personali e professionali di quell’operatore. Certamente verrebbe da dire che la presenza periodica di supervisori esterni all’èquipe dovrebbe diventare un’abitudine istituzionale in ogni ambito sanitario, anche se questo comporta un impegno economico per le aziende. Non sempre infatti queste ultime si rendono conto dell’importanza e dell’utilità di queste particolari forme di intervento, forse per l’eccessiva mentalità economico-aziendalista dei dirigenti, i quali devono inevitabilmente chiudere almeno in pareggio il bilancio aziendale, a fine anno.CONCLUSIONI Molti sono gli “ingredienti” necessari per costituire e far funzionare un’èquipe, anche se talvolta non di facile realizzazione per la mancanza di risorse umane, economiche e logistiche. In ogni caso non ci si può arrendere a questa evidenza, perché il percorso intrapreso dalla psichiatria moderna è quello della riabilitazione psicosociale e residenziale. Questa forma di riabilitazione mette in discussione ognuno di noi invitandoci a tentare un percorso di inclusione e di accettazione del paziente psichiatrico. Lo strumento dell’èquipe quindi diventa necessario, nell’operare quotidiano in psichiatria, perché la responsabilità terapeutica non gravi solo su un singolo operatore, ma venga distribuita tra i vari componenti del gruppo di lavoro per evitare tutto quello che di negativo abbiamo già brevemente in precedenza descritto. L’èquipe multidisciplinare costituisce una risposta complessa ad una realtà complessa come il disturbo mentale, correlato a variabili genetiche, biologiche, psicologiche, relazionali e sociali. Tutti gli operatori non possono più trincerarsi dietro confini professionali rigidi ma sono chiamati piuttosto a forme concrete di collaborazione che richiedono doti di flessibilità e di generatività. E’ meglio avere una èquipe in crisi e conflittuale, che stenta ad armonizzarsi ed ottiene risultati deludenti, piuttosto che rinunciare a questo strumento operativo per sostituirlo con l’illusione dell’autosufficienza individuale e professionale. Perché questa scelta potrebbe essere infruttuosa e soprattutto non terapeutica.
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Il gruppo di lavoro tra idealità e necessità / Ferri, Paola; A., Giannone; R., Paguni. - In: IO INFERMIERE. - STAMPA. - 1:(2005), pp. 16-22.
Ferri, Paola; A., Giannone; R., Paguni
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