All’indomani dell’Unità nazionale, il nuovo Regno d’Italia avviò una vasta gamma di riforme atte a fornire la giovane nazione degli strumenti istituzionali più idonei al suo funzionamento. In tale contesto, assunsero subito carattere di urgenza la riforma penitenziaria e, nell’ambito dell’adozione di una codificazione unitaria, la redazione del codice penale. In un primo momento, il Parlamento avvertì la gravità dell’impresa di fronte a un patrimonio edilizio penitenziario insufficiente e fortemente bisognoso di interventi di restauro e adeguamento. È pur vero però che dibattito si incentrò sull’aspetto preliminare del sistema di espiazione da adottare; infatti, proprio in quegli anni il regime segregativo totalizzante veniva incrinato dall’affermarsi del cd. sistema di Auburn (lavoro diurno e segregazione notturna), poi declinato secondo princìpi di alleggerimento progressivo dell’afflittività (cd. sistema irlandese). La congestionata realtà dei primi anni del Regno e la necessità di provvedere al più presto alla codificazione unitaria si tradussero, com’è noto, nell’anomala realtà di due ordinamenti penali paralleli, uno dei quali, quello toscano, caratterizzato dalla vigenza di un codice diverso dal resto del Paese e dall’assenza della pena capitale. Il tema preliminare del sistema carcerario da adottare, pertanto, venne fatalmente attratto dal dibattito sulla scala penale e, più specificamente, dal tema dell’abolizione della pena di morte. Tale abolizione, infatti, avrebbe introdotto nell’ordinamento italiano la pena dell’ergastolo, la quale poneva problemi inediti al sistema penitenziario e alle sue strutture. L’opzione di quale sistema penitenziario fosse il più adatto all’ordinamento italiano venne dibattuta all’interno delle varie commissioni parlamentari che si susseguirono dal 1866 in poi per dare un codice penale unitario al Regno. Tale circostanza produsse, tra gli altri effetti, quello di marginalizzare sempre più nel tempo i “tecnici”, gli esperti di materie carcerarie, che faticarono a far sentire la propria voce. A pronunziarsi su tali temi furono quindi soprattutto parlamentari, professori universitari e magistrati, che avviarono un acceso dibattito in cui l’opzione del sistema carcerario da adottare era strettamente legato all’introduzione di una pena come l’ergastolo, che per sua natura sembrava far prevalere il carattere della segregazione continua. L’idoneità degli istituti di pena italiani ad ospitare ergastolani e, nello stesso tempo, a realizzare un sistema misto di lavoro diurno e segregazione cellulare notturna fu oggetto di un’accesa discussione, sulla quale incombeva quella dell’abolizione o del mantenimento della pena capitale, come premessa logica – e pratica – ineludibile di ogni presa di posizione. Dal 1876, cioè dall’avvento al governo della Sinistra storica, venne intrapreso un percorso più deciso verso la non applicazione della pena di morte mediante grazia sovrana in un primo momento e, in un secondo momento, verso l’introduzione della pena dell’ergastolo al posto di quella capitale, obiettivo raggiunti con l’entrata in vigore del codice Zanardelli nel 1889. Nel frattempo, l’avvento alla guida della Direzione generale delle carceri di Martino Bertani Scalia apriva una nuova stagione, caratterizzata dalla scientifizzazione della questione carceraria. Il contributo di Bertani toccò il suo culmine con l’ascesa della stella di Francesco Crispi e vide nel Regolamento generale degli Stabilimenti carcerari e dei riformatori giudiziari la sua espressione più compiuta. Malgrado ciò, l’assenza di risorse sufficienti ai programmi e ai bisogni non consentì di attenuare quello che sembrava essere il problema più evidente, cioè il sovraffolamento, che, oltre ai disastrosi effetti sui carcerati e sul personale di custodia, produceva anche altre conseguenze indesiderate sul piano della effettività del lavoro da svolgere durante l’espiazione della pena e della coabitazione tra condannati e semplici imputati.
Pena capitale, scala penale e riforma penitenziaria nel dibattito postunitario / Tavilla, Elio. - (2025), pp. 81-108.
Pena capitale, scala penale e riforma penitenziaria nel dibattito postunitario
Tavilla, Elio
2025
Abstract
All’indomani dell’Unità nazionale, il nuovo Regno d’Italia avviò una vasta gamma di riforme atte a fornire la giovane nazione degli strumenti istituzionali più idonei al suo funzionamento. In tale contesto, assunsero subito carattere di urgenza la riforma penitenziaria e, nell’ambito dell’adozione di una codificazione unitaria, la redazione del codice penale. In un primo momento, il Parlamento avvertì la gravità dell’impresa di fronte a un patrimonio edilizio penitenziario insufficiente e fortemente bisognoso di interventi di restauro e adeguamento. È pur vero però che dibattito si incentrò sull’aspetto preliminare del sistema di espiazione da adottare; infatti, proprio in quegli anni il regime segregativo totalizzante veniva incrinato dall’affermarsi del cd. sistema di Auburn (lavoro diurno e segregazione notturna), poi declinato secondo princìpi di alleggerimento progressivo dell’afflittività (cd. sistema irlandese). La congestionata realtà dei primi anni del Regno e la necessità di provvedere al più presto alla codificazione unitaria si tradussero, com’è noto, nell’anomala realtà di due ordinamenti penali paralleli, uno dei quali, quello toscano, caratterizzato dalla vigenza di un codice diverso dal resto del Paese e dall’assenza della pena capitale. Il tema preliminare del sistema carcerario da adottare, pertanto, venne fatalmente attratto dal dibattito sulla scala penale e, più specificamente, dal tema dell’abolizione della pena di morte. Tale abolizione, infatti, avrebbe introdotto nell’ordinamento italiano la pena dell’ergastolo, la quale poneva problemi inediti al sistema penitenziario e alle sue strutture. L’opzione di quale sistema penitenziario fosse il più adatto all’ordinamento italiano venne dibattuta all’interno delle varie commissioni parlamentari che si susseguirono dal 1866 in poi per dare un codice penale unitario al Regno. Tale circostanza produsse, tra gli altri effetti, quello di marginalizzare sempre più nel tempo i “tecnici”, gli esperti di materie carcerarie, che faticarono a far sentire la propria voce. A pronunziarsi su tali temi furono quindi soprattutto parlamentari, professori universitari e magistrati, che avviarono un acceso dibattito in cui l’opzione del sistema carcerario da adottare era strettamente legato all’introduzione di una pena come l’ergastolo, che per sua natura sembrava far prevalere il carattere della segregazione continua. L’idoneità degli istituti di pena italiani ad ospitare ergastolani e, nello stesso tempo, a realizzare un sistema misto di lavoro diurno e segregazione cellulare notturna fu oggetto di un’accesa discussione, sulla quale incombeva quella dell’abolizione o del mantenimento della pena capitale, come premessa logica – e pratica – ineludibile di ogni presa di posizione. Dal 1876, cioè dall’avvento al governo della Sinistra storica, venne intrapreso un percorso più deciso verso la non applicazione della pena di morte mediante grazia sovrana in un primo momento e, in un secondo momento, verso l’introduzione della pena dell’ergastolo al posto di quella capitale, obiettivo raggiunti con l’entrata in vigore del codice Zanardelli nel 1889. Nel frattempo, l’avvento alla guida della Direzione generale delle carceri di Martino Bertani Scalia apriva una nuova stagione, caratterizzata dalla scientifizzazione della questione carceraria. Il contributo di Bertani toccò il suo culmine con l’ascesa della stella di Francesco Crispi e vide nel Regolamento generale degli Stabilimenti carcerari e dei riformatori giudiziari la sua espressione più compiuta. Malgrado ciò, l’assenza di risorse sufficienti ai programmi e ai bisogni non consentì di attenuare quello che sembrava essere il problema più evidente, cioè il sovraffolamento, che, oltre ai disastrosi effetti sui carcerati e sul personale di custodia, produceva anche altre conseguenze indesiderate sul piano della effettività del lavoro da svolgere durante l’espiazione della pena e della coabitazione tra condannati e semplici imputati.| File | Dimensione | Formato | |
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