Negli ultimi decenni numerose ricerche hanno evidenziato che le risalite di fluidi sui fondali oceanici, sia calde che fredde, sono fenomeni globalmente estesi, con importanti implicazioni geologiche e biologiche. La risalita di fluidi è generalmente connessa con: a) precipitazione di minerali autigeni fra cui carbonati primari (calcite, aragonite e dolomite), solfuri e solfati; b) peculiari caratteristiche geochimiche dei sedimenti, delle rocce, dell’acqua e degli organismi; c) l’instaurarsi di relazioni simbiotiche fra comunità macrofaunali e microrganismi; d) la formazione di processi diapirici con caoticizzazione dei sedimenti incassanti; e) processi d’instabilità sedimentaria (frane sottomarine di varia tipologia).Verso la fine degli anni ‘70 lo studio dei fondali oceanici, con l’impulso prodotto dall’utilizzo di sottomarini, ha permesso la scoperta dell’esistenza di risalite di fluidi idrotermali arricchiti in solfuri (hot vents) caratterizzati dalla strutturazione di camini costituiti principalmente da solfuri e dalla presenza di una peculiare ed abbondante fauna chemiosintetica (Lonsdale, 1977).A partire dagli anni ‘80, il proseguire delle indagini sottomarine ha evidenziato l’esistenza di risalite localizzate di fluidi freddi ricchi in idrocarburi leggeri (cold seeps), diffusi praticamente in tutti i contesti geodinamici oceanici: nei margini attivi sono segnalati nel prisma di accrezione dell’Oregon (Ritger et al., 1987; Bohrmann et al., 1998), del Giappone (Sakai et al, 1992), del Makran (Von Rad et al, 1996), del Perù (Sample, 1996), di Barbados (Lance et al, 1998), delle Aleutine (Suess et al, 1999) e del Mediterraneo orientale (Aloisi et al, 2000), nel Mar Nero (Peckmann et al., 2001), nel mare marginale di Okhotsk (Esikov and Pashkina, 1990; Greinert, 1999), nel bacino di avanarco della Sonda (Wiedicke et al, 2002), nella scarpata continentale della Nuova Zelanda (Lewis & Marshall, 1996). Nei margini passivi sono frequenti nel Mare del Nord (Hovland et al., 1987), al largo della Danimarca (Jorgensen, 1992), alla base della scarpata a gradoni della Florida (Paull et al., 1995), nel Golfo del Messico (Roberts, 2001). Sono presenti infine nei margini trascorrenti-conservativi della California (Embley et al, 1990; Stakes et al, 1999).Come già osservato per gli hot vents, i cold seeps sono caratterizzati dalla presenza di una fauna bentonica rigogliosa, sostenuta su base chemiosintetica. Si formano comunità a bivalvi in endosimbiosi con batteri solfo-ossidanti, solfato-riducenti e metano-ossidanti (Van Dover, 2000). I batteri utilizzano energia chimica al posto della luce solare e trasformano composti inorganici in sostanze utilizzabili dai bivalvi; viceversa questi ultimi forniscono protezione ai batteri. In corrispondenza dei cold seeps si può realizzare la precipitazione di carbonati autigeni, che sono stati riconosciuti nel record geologico a partire almeno del Fanerozoico (Barbieri et al. 2001; Campbell et al, 2002, Campbell, 2006 e riferimenti bibliografici in essi contenuti). E’ ampiamente riconosciuto che i migliori indicatori di prodotti fossili di cold seeps sono: a) forte impoverimento in 13C dei carbonati, con conseguenti valori isotopici negativi del δ13C; b) associazioni di macrofauna particolare e oligotipica; c) biomarkers specifici (Campbell and Bottjer, 1993; Aharon et al, 1992; Aharon, 2000; Taviani, 2001; Peckmann et al, 2001, 2002; Campbell et al, 2002); d) peculiari strutture riconducibili a fenomeni diapirici.Interessanti esempi fossili di cold seeps sono rappresentati dal “calcare a Lucina” dell’Appennino settentrionale, oggetto della presente escursione. Questi carbonati, caratterizzati da una composizione isotopica negativa del carbonio e da una consistente presenza di fossili di bivalvi (principalmente lucinidi di grandi dimensioni), sono testimonianza di una lunga e complessa storia di risalita di fluidi arricchiti in metano perdurata durante la strutturazione della catena appenninica nel tardo Terziario. Il “calcare a Lucina” è conosciuto e studiato a partire dalla seconda metà dell’800, ed ha suscitato interesse per l’ampia diffusione degli affioramenti, dal Monferrato alla Sicilia e perché si riteneva che la specie Lucina Pomum fosse un fossile guida del Miocene Medio (per i riferimenti storici vedere Conti et al, 1996; Ricci Lucchi and Vai, 1994; Taviani, 2001). A partire dall’inizio del ‘900 l’importanza stratigrafica della specie L. Pomum venne confutata in quanto risultava evidente che il genere Lucina affiorava nei terreni miocenici di tutte le età; rimase tuttavia la convinzione che fosse un buon fossile di facies, indicatore di acque poco profonde. Successivamente, il riconoscimento che alcuni depositi contenenti il genere Lucina sono in realtà risedimentati ne ha rinnovato l'interesse in quanto ritenuti indicatori di fenomeni d'instabilità nell'avanfossa appenninica.I depositi calcarei a Lucina sono stati recentemente reinterpretati come il prodotto fossile degli attuali cold seeps, a partire dagli studi di Clari et al (1988) sui “calcari Marmorito” del Piemonte. In seguito questa interpretazione è stata estesa ad altri affioramenti dell’Appennino settentrionale (Ricci Lucchi and Vai, 1994; Clari et al, 1994; Berti et al, 1994; Terzi et al, 1994; Taviani, 1994, 1996, 2001; Conti et al, 1996; Cavagna et al, 1999; Conti and Fontana, 1999, 2002; Barbieri et al, 2000, 2001; Peckmann et al, 2001). Questi studi hanno evidenziato che il “calcare a Lucina” è uno fra i migliori esempi di prodotti fossili collegati a risalite di fluidi freddi, comparabile ad altre situazioni descritte per il Mesozoico ed il Terziario del Giappone e del margine convergente del Pacifico nordorientale (Campbell and Bottjer, 1993; Shibasaki and Majima, 1997; Campbell et al, 2002; Peckmann et al, 2002).
Risalita di fluidi freddi ricchi in metano, carbonati autigeni ed instabilità sedimentaria nel Miocene medio-superiore dell’Appennino settentrionale / Conti, Stefano; Fontana, Daniela; MARCHETTI DORI, S.. - STAMPA. - (2006), pp. 1-33.
Risalita di fluidi freddi ricchi in metano, carbonati autigeni ed instabilità sedimentaria nel Miocene medio-superiore dell’Appennino settentrionale.
CONTI, Stefano;FONTANA, Daniela;
2006
Abstract
Negli ultimi decenni numerose ricerche hanno evidenziato che le risalite di fluidi sui fondali oceanici, sia calde che fredde, sono fenomeni globalmente estesi, con importanti implicazioni geologiche e biologiche. La risalita di fluidi è generalmente connessa con: a) precipitazione di minerali autigeni fra cui carbonati primari (calcite, aragonite e dolomite), solfuri e solfati; b) peculiari caratteristiche geochimiche dei sedimenti, delle rocce, dell’acqua e degli organismi; c) l’instaurarsi di relazioni simbiotiche fra comunità macrofaunali e microrganismi; d) la formazione di processi diapirici con caoticizzazione dei sedimenti incassanti; e) processi d’instabilità sedimentaria (frane sottomarine di varia tipologia).Verso la fine degli anni ‘70 lo studio dei fondali oceanici, con l’impulso prodotto dall’utilizzo di sottomarini, ha permesso la scoperta dell’esistenza di risalite di fluidi idrotermali arricchiti in solfuri (hot vents) caratterizzati dalla strutturazione di camini costituiti principalmente da solfuri e dalla presenza di una peculiare ed abbondante fauna chemiosintetica (Lonsdale, 1977).A partire dagli anni ‘80, il proseguire delle indagini sottomarine ha evidenziato l’esistenza di risalite localizzate di fluidi freddi ricchi in idrocarburi leggeri (cold seeps), diffusi praticamente in tutti i contesti geodinamici oceanici: nei margini attivi sono segnalati nel prisma di accrezione dell’Oregon (Ritger et al., 1987; Bohrmann et al., 1998), del Giappone (Sakai et al, 1992), del Makran (Von Rad et al, 1996), del Perù (Sample, 1996), di Barbados (Lance et al, 1998), delle Aleutine (Suess et al, 1999) e del Mediterraneo orientale (Aloisi et al, 2000), nel Mar Nero (Peckmann et al., 2001), nel mare marginale di Okhotsk (Esikov and Pashkina, 1990; Greinert, 1999), nel bacino di avanarco della Sonda (Wiedicke et al, 2002), nella scarpata continentale della Nuova Zelanda (Lewis & Marshall, 1996). Nei margini passivi sono frequenti nel Mare del Nord (Hovland et al., 1987), al largo della Danimarca (Jorgensen, 1992), alla base della scarpata a gradoni della Florida (Paull et al., 1995), nel Golfo del Messico (Roberts, 2001). Sono presenti infine nei margini trascorrenti-conservativi della California (Embley et al, 1990; Stakes et al, 1999).Come già osservato per gli hot vents, i cold seeps sono caratterizzati dalla presenza di una fauna bentonica rigogliosa, sostenuta su base chemiosintetica. Si formano comunità a bivalvi in endosimbiosi con batteri solfo-ossidanti, solfato-riducenti e metano-ossidanti (Van Dover, 2000). I batteri utilizzano energia chimica al posto della luce solare e trasformano composti inorganici in sostanze utilizzabili dai bivalvi; viceversa questi ultimi forniscono protezione ai batteri. In corrispondenza dei cold seeps si può realizzare la precipitazione di carbonati autigeni, che sono stati riconosciuti nel record geologico a partire almeno del Fanerozoico (Barbieri et al. 2001; Campbell et al, 2002, Campbell, 2006 e riferimenti bibliografici in essi contenuti). E’ ampiamente riconosciuto che i migliori indicatori di prodotti fossili di cold seeps sono: a) forte impoverimento in 13C dei carbonati, con conseguenti valori isotopici negativi del δ13C; b) associazioni di macrofauna particolare e oligotipica; c) biomarkers specifici (Campbell and Bottjer, 1993; Aharon et al, 1992; Aharon, 2000; Taviani, 2001; Peckmann et al, 2001, 2002; Campbell et al, 2002); d) peculiari strutture riconducibili a fenomeni diapirici.Interessanti esempi fossili di cold seeps sono rappresentati dal “calcare a Lucina” dell’Appennino settentrionale, oggetto della presente escursione. Questi carbonati, caratterizzati da una composizione isotopica negativa del carbonio e da una consistente presenza di fossili di bivalvi (principalmente lucinidi di grandi dimensioni), sono testimonianza di una lunga e complessa storia di risalita di fluidi arricchiti in metano perdurata durante la strutturazione della catena appenninica nel tardo Terziario. Il “calcare a Lucina” è conosciuto e studiato a partire dalla seconda metà dell’800, ed ha suscitato interesse per l’ampia diffusione degli affioramenti, dal Monferrato alla Sicilia e perché si riteneva che la specie Lucina Pomum fosse un fossile guida del Miocene Medio (per i riferimenti storici vedere Conti et al, 1996; Ricci Lucchi and Vai, 1994; Taviani, 2001). A partire dall’inizio del ‘900 l’importanza stratigrafica della specie L. Pomum venne confutata in quanto risultava evidente che il genere Lucina affiorava nei terreni miocenici di tutte le età; rimase tuttavia la convinzione che fosse un buon fossile di facies, indicatore di acque poco profonde. Successivamente, il riconoscimento che alcuni depositi contenenti il genere Lucina sono in realtà risedimentati ne ha rinnovato l'interesse in quanto ritenuti indicatori di fenomeni d'instabilità nell'avanfossa appenninica.I depositi calcarei a Lucina sono stati recentemente reinterpretati come il prodotto fossile degli attuali cold seeps, a partire dagli studi di Clari et al (1988) sui “calcari Marmorito” del Piemonte. In seguito questa interpretazione è stata estesa ad altri affioramenti dell’Appennino settentrionale (Ricci Lucchi and Vai, 1994; Clari et al, 1994; Berti et al, 1994; Terzi et al, 1994; Taviani, 1994, 1996, 2001; Conti et al, 1996; Cavagna et al, 1999; Conti and Fontana, 1999, 2002; Barbieri et al, 2000, 2001; Peckmann et al, 2001). Questi studi hanno evidenziato che il “calcare a Lucina” è uno fra i migliori esempi di prodotti fossili collegati a risalite di fluidi freddi, comparabile ad altre situazioni descritte per il Mesozoico ed il Terziario del Giappone e del margine convergente del Pacifico nordorientale (Campbell and Bottjer, 1993; Shibasaki and Majima, 1997; Campbell et al, 2002; Peckmann et al, 2002).Pubblicazioni consigliate
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