Si può parlare di fondamenti estetici della filosofia bergsoniana con diversi intenti, e a partire da diverse prospettive. Si è sottolineato, ad esempio, il carattere “letterario” – più che squisitamente filosofico – dell’intera opera di Bergson, ravvisandovi ora la realizzazione di un obiettivo esplicito (la famosa “conversione della metafisica in arte”), ora l’esito ineluttabile di una romantica metafisica della vita, di un pensiero che procede per suggestioni, per impressioni non criticamente fondate. Va detto, però, che negli ultimi decenni questa linea interpretativa è stata notevolmente ridimensionata: studi autorevoli hanno evidenziato la sistematicità della riflessione bergsoniana, la sua ricerca di una metodologia scientificamente rigorosa. Un altro modo per accostarsi all’argomento sarebbe quello di non circoscrivere il discorso al tema dell’arte, ma di vedere nella filosofia di Bergson – che conferisce un ruolo cruciale ai processi sensoriali e percettivi – un’interrogazione sull’“esteticità” dell’esperienza in quanto tale; quest’ultima lettura, che potrebbe risultare feconda, non è ancora stata perseguita organicamente, anche se è possibile scorgerne importanti tasselli in monografie ormai classiche come quelle di G. Deleuze e di V. Mathieu.In questa relazione, si presenta un percorso interpretativo che evidenzia invece il ruolo paradigmatico assegnato da Bergson all’arte, nel quadro di una riflessione volta a ripensare i rapporti tra scienza e filosofia sulla scorta del nuovo modello d’intelligibilità delineato, nell’Ottocento, dagli sviluppi delle scienze biologiche. Non si tratta, cioè, di trasformare la filosofia in arte, ma di scorgere le potenzialità euristiche dell’arte in un contesto epistemologico che non pensa più la vita nei termini di una macchina. Per Bergson, la filosofia deve essere una scienza; non può esserlo, però, al modo della tradizione cartesiano-galileiana (e della sua versione più recente: il meccanicismo positivistico), che salda la razionalità scientifica a un’immagine matematica della scienza stessa, facendo coincidere il rigore metodologico con una progressiva quantificazione dei dati dell’esperienza. Può esserlo, invece, al modo della biologia: di quella scienza che, non casualmente, ha raggiunto nel corso dell’Ottocento un autonomo statuto sperimentale proprio sulla base di una radicale delegittimazione dello iatromeccanicismo sei-settecentesco, ovvero della medicina d’ispirazione cartesiana. Ora, che rapporto c’è tra questo cambiamento di paradigmi e la problematica dell’opera d’arte? Per rispondere a questa domanda, la relazione ricostruisce il modello biologico che Bergson ha in mente quando vuole fare della filosofia una ricerca di tipo “sperimentale”. Emerge così che Bergson riprende la definizione della vita come “creazione” data dal biologo Claude Bernard, che pensa la vita sul modello della prassi artistica, evidenziandone la coesione, l’armonia, la compenetrazione parti-tutto, la finalità interna, la formazione in base a una certa “progettualità”. Analogamente, la prospettiva aperta da Bergson sembra sottendere un paradigma estetico: non perché le teorie della durée e dell’élan vital sarebbero incompatibili con la logica della spiegazione scientifica; non perché la filosofia perderebbe la propria specificità assimilandosi alla letteratura; piuttosto, perché il modello sperimentale della biologia offriva già un’immagine dinamica della natura e un’immagine inventiva della scienza. Sotto questo profilo, decisiva risulta la mediazione offerta da Félix Ravaisson, che aveva già delineato i rapporti tra opera d’arte e organismo vivente, da un lato, e tra biologia, estetica e metafisica, dall’altro.Non si tratta di abdicare al rigore filosofico, ma d’istituire un modello di razionalità che, alla stregua del sapere biologico, segua la realtà in tutte le sue pieghe, si venga creando insieme al proprio oggetto, trovando nell’arte un momento esemplare e paradigmatico. In sintesi, l’intuizionismo bergsoniano viene letto come il tentativo di declinare questo paradigma in senso filosofico, di esplorare un nuovo legame tra scienza e filosofia attraverso la mediazione dell’estetico.

La mediazione dell'estetico. Alcune riflessioni sulla metodologia filosofica di Bergson / Contini, Annamaria. - STAMPA. - (1999), pp. 61-73. (Intervento presentato al convegno Le provocazioni dell'estetica. V Convegno nazionale AISE tenutosi a Gargnano (Università degli Studi di Milano) nel 11-13 ottobre 1999).

La mediazione dell'estetico. Alcune riflessioni sulla metodologia filosofica di Bergson

CONTINI, Annamaria
1999

Abstract

Si può parlare di fondamenti estetici della filosofia bergsoniana con diversi intenti, e a partire da diverse prospettive. Si è sottolineato, ad esempio, il carattere “letterario” – più che squisitamente filosofico – dell’intera opera di Bergson, ravvisandovi ora la realizzazione di un obiettivo esplicito (la famosa “conversione della metafisica in arte”), ora l’esito ineluttabile di una romantica metafisica della vita, di un pensiero che procede per suggestioni, per impressioni non criticamente fondate. Va detto, però, che negli ultimi decenni questa linea interpretativa è stata notevolmente ridimensionata: studi autorevoli hanno evidenziato la sistematicità della riflessione bergsoniana, la sua ricerca di una metodologia scientificamente rigorosa. Un altro modo per accostarsi all’argomento sarebbe quello di non circoscrivere il discorso al tema dell’arte, ma di vedere nella filosofia di Bergson – che conferisce un ruolo cruciale ai processi sensoriali e percettivi – un’interrogazione sull’“esteticità” dell’esperienza in quanto tale; quest’ultima lettura, che potrebbe risultare feconda, non è ancora stata perseguita organicamente, anche se è possibile scorgerne importanti tasselli in monografie ormai classiche come quelle di G. Deleuze e di V. Mathieu.In questa relazione, si presenta un percorso interpretativo che evidenzia invece il ruolo paradigmatico assegnato da Bergson all’arte, nel quadro di una riflessione volta a ripensare i rapporti tra scienza e filosofia sulla scorta del nuovo modello d’intelligibilità delineato, nell’Ottocento, dagli sviluppi delle scienze biologiche. Non si tratta, cioè, di trasformare la filosofia in arte, ma di scorgere le potenzialità euristiche dell’arte in un contesto epistemologico che non pensa più la vita nei termini di una macchina. Per Bergson, la filosofia deve essere una scienza; non può esserlo, però, al modo della tradizione cartesiano-galileiana (e della sua versione più recente: il meccanicismo positivistico), che salda la razionalità scientifica a un’immagine matematica della scienza stessa, facendo coincidere il rigore metodologico con una progressiva quantificazione dei dati dell’esperienza. Può esserlo, invece, al modo della biologia: di quella scienza che, non casualmente, ha raggiunto nel corso dell’Ottocento un autonomo statuto sperimentale proprio sulla base di una radicale delegittimazione dello iatromeccanicismo sei-settecentesco, ovvero della medicina d’ispirazione cartesiana. Ora, che rapporto c’è tra questo cambiamento di paradigmi e la problematica dell’opera d’arte? Per rispondere a questa domanda, la relazione ricostruisce il modello biologico che Bergson ha in mente quando vuole fare della filosofia una ricerca di tipo “sperimentale”. Emerge così che Bergson riprende la definizione della vita come “creazione” data dal biologo Claude Bernard, che pensa la vita sul modello della prassi artistica, evidenziandone la coesione, l’armonia, la compenetrazione parti-tutto, la finalità interna, la formazione in base a una certa “progettualità”. Analogamente, la prospettiva aperta da Bergson sembra sottendere un paradigma estetico: non perché le teorie della durée e dell’élan vital sarebbero incompatibili con la logica della spiegazione scientifica; non perché la filosofia perderebbe la propria specificità assimilandosi alla letteratura; piuttosto, perché il modello sperimentale della biologia offriva già un’immagine dinamica della natura e un’immagine inventiva della scienza. Sotto questo profilo, decisiva risulta la mediazione offerta da Félix Ravaisson, che aveva già delineato i rapporti tra opera d’arte e organismo vivente, da un lato, e tra biologia, estetica e metafisica, dall’altro.Non si tratta di abdicare al rigore filosofico, ma d’istituire un modello di razionalità che, alla stregua del sapere biologico, segua la realtà in tutte le sue pieghe, si venga creando insieme al proprio oggetto, trovando nell’arte un momento esemplare e paradigmatico. In sintesi, l’intuizionismo bergsoniano viene letto come il tentativo di declinare questo paradigma in senso filosofico, di esplorare un nuovo legame tra scienza e filosofia attraverso la mediazione dell’estetico.
1999
Le provocazioni dell'estetica. V Convegno nazionale AISE
Gargnano (Università degli Studi di Milano)
11-13 ottobre 1999
61
73
Contini, Annamaria
La mediazione dell'estetico. Alcune riflessioni sulla metodologia filosofica di Bergson / Contini, Annamaria. - STAMPA. - (1999), pp. 61-73. (Intervento presentato al convegno Le provocazioni dell'estetica. V Convegno nazionale AISE tenutosi a Gargnano (Università degli Studi di Milano) nel 11-13 ottobre 1999).
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